giovedì 15 febbraio 2007

Lo scialle bianco - Vilanova de Gaia

Ragazzini, canottiere sbilenche e sdrucite, corrono svelti giù per la discesa fatta di gradoni di cemento. Stasera si balla, si canta, si mangiano frittelle calde e pesce fritto. L’odore arriva già sino qui e intanto il cielo si stria di rosso, d’arancio e di viola. Tra poco ci saranno i fuochi d’artificio. Il caldo è insopportabile, anche se ormai è sera. Le case bianche sono tutte a un solo piano. Poverissime, con gli avvolgibili abbassati o raccolti fuori dalle finestre. Qua usa così. Se la luce è accesa puoi sbirciare tra le tendine acriliche e vedere mobili pieni di foto di parenti morti o troppo lontani. Le luci si spengono una dopo l’altra: bisogna uscire e correre al porto, tra le luminarie ricche della festa di ogni povero paese, manifestazione ingiustificata di un’opulenza che non c’è. Ma è la festa della Madonna e bisogna far finta che ci sia. Insomma, almeno una volta l’anno. A costo di rinunciare alla camicetta nuova che si potrebbe fare con quel taglio di stoffa visto in città, al mercato. Si spengono le luci e si accende la musica. E’ ora di raggiungere i bambini, là in basso. Sì, la musica si accende, rimbalza sui costoni di roccia, arriva a vibrare sul tramonto che si attarda sulle barche di legno e giunge fino all’altra sponda dove i turisti stanno seduti ai ristorantini della ribeira. E’ un tramonto da cartolina fatto di luci che si accendono sullo sfondo del sole che si spegne: lo spettacolo della civiltà che sfida lo spettacolo della natura. Malgrado il caldo, l’aria è tersa e il profilo nero della città, punteggiato di lampioni, ritaglia il rosso del cielo. Se non fossi di cattivo umore direi che è tutto così romantico. La gente corre alle mie spalle. Sento gli zoccoli dei bambini sul cemento e il ticchettare delle scarpe scomode della festa, quelle col tacco, delle signore. I rumori mi raggiungono. Ancora qualche momento e potrò arrivare a vedere ciò che fino ad ora ho solo intuito. Tacchi, suole e zeppe che si affrettano, superano il gomito della curva, infine si allontanano. Ora sono di nuovo soltanto rumori. Io non ho fretta, la festa non mi attende, non sa che sto arrivando, non sa nemmeno che esisto. No, non c’è qualcuno che mi aspetta, qualcuno che mi tenderà un bicchiere di vino rosso, fuoco delle anime semplici, stordimento per una serata di abbandono tra frange di poveri scialli a coprir le spalle dal vento della sera mentre il suono di una vecchia chitarra soppianta lo stereo e comincia a recitare la sua poesia, quando il sole è ormai cancellato dalla notte e i fuochi accesi su quella riva del Douro hanno già raccontato a Porto che a Gaia è una notte di festa. Passa un’ora e le famiglie risalgono. Mamme e papà hanno i bimbi in braccio, con le guance appiccicate alle spalle sudate. Loro guadagnano faticosamente le porte delle case e io posso finalmente scendere, guidato dalle note di quel chitarrista che mi sta incantando, pifferaio magico del mio immaginario troppo spesso decapitato dalle contingenze della quotidianità. Cerco una favola. Immagino là infondo quello che non c’è e che non ci può essere. Questa volta voglio che il sogno prevalga sulla ragione. E’ per me uno sforzo grande perché devo rinunciare al mio senso critico, devo acconsentire a una semplificazione frazionaria del mio intelletto, della mia complessità. Ho già ceduto alle lusinghe del rosso del tramonto commovendomi senza una vera ragione, ho ascoltato il rimbombare dei fuochi d’artificio con lo stesso timore di quando ero bambino. Ho ricordato l’odore di fritto della festa del mio paese. Solitamente non mi piace aprire le porte a queste emozioni perché mi proietta indietro nel tempo e mi priva di vent’anni di studi, esperienze, condizionamenti sociali ai quali solitamente non amo rinunciare perché, lo so, questa strada mi porta a quello che ero prima di studiare, di leggere, di conoscere, di vivere. Eppure stanotte voglio dimenticare tutto e cedere all’emozione. Quando arriverò all’ultimo gradino della discesa voglio vedere te, i tuoi riccioli neri gettati all’indietro per una risata che ti scuote anche il petto. Voglio vedere il tuo scialle bianco in mezzo a quelli neri delle altre donne. E voglio immaginarmi mentre ti cingo la vita e contemporaneamente ti reggo, perché quel mio gesto improvviso non ti sbilanci. Voglio vedermi con gli occhi semichiusi per l’alcol e l’eccitazione aspettare il resto della notte che sta arrivando mentre tu mi accarezzi con un dito la fronte, il naso, le labbra. Voglio ricordare quel giorno in cui, ultimo nel tempo, ti immaginai come eri prima di ammalarti e mi accontentai di averti lì, povero corpo vuoto. Per l’ultima volta potevo vedere i tuoi riccioli bruni e il tuo naso affilato prima di chiudere te nella bara e me nel più completo isolamento. Prima di fare del lavoro la mia unica, inutile, ragione di vita. Ora fa freddo. Si è alzato il vento. Le luci sono quasi tutte spente. Qualcuno si affretta a raccogliere cartacce e bicchieri vuoti. Rimane solo la puzza di fritto, nauseante, che impesta ogni angolo del paese. Sorrido. “Lo so, lo so che non devo brontolare”. E’ come se ti rispondessi. E’ tardi. Una ragazza mi viene incontro. I suoi lunghi riccioli neri cadono su uno scialle bianco. Probabilmente è solo il solito sogno.

Incubo - Santiago de Compostela

Vedi, Simone, non è che io qui stia male. E’ solo che non avrei dovuto immaginare, sperare, che la semplice distanza potesse liberarmi da quell’incubo. Mi sembra sempre di essere spiato. Si affacciano dai tetti, grigi come la pietra della cattedrale. Arcigni come la gente che trovi qui, nei negozi e nei locali. Sai, quei mostriciattoli gotici… i gargoil… ognuno di loro ha dentro un’anima. E non ci vuole grande impegno ad abbinare queste creature di sasso alle facce che incontri ogni giorno dietro ai banconi delle botteghe o per la strada. Sembra che si diano il turno sopra le grondaie. Che si travestano, che siano capaci di qualsiasi sortilegio, che si pietrifichino per spiarti e riferire, poi, quello che fai. Addirittura quello che pensi. Riferire a chi, poi? Al Demonio, è certo. So solo che si nascondono dietro a San Giacomo, alla Croce, alla Fede. Perché la cristianità qua è un abito, nasconde le streghe che stanno in questo posto, tutto quello che sta dietro al bianco fasullo di questi sepolcri. E’ questo il maleficio che impietrisce il cuore della gente, che gela la mente di chi abita qua, che impedisce ogni tipo di contatto che non preveda un passaggio di denaro. Mi sembra inutile, ornai, anche ragionarci sopra. E’ chiaro che questi idoli di pietra sono i veri dei. I santi cristiano sono le solo statue, paravento per una realtà impressionate che mi pare, e scusa se sorrido, metà disneyana e metà horror-gotico. Le anime vero, te l’ho detto, sono degli animali di pietra. La gente porta una maschera di cristianità, ma è quella medievale, che ogni moneta che tintinna regala un’indulgenza. Mio caro Simone, dietro le tendine di lino di ogni finestra, sotto le croci, puoi immaginare altari pagani. Questa gente è come se si vestisse per recitare per le vie, davanti ai turisti. E devo dire che non si impegna più di tanto: è rude, rustica, maldisposta. Sembra che il comportamento di questa gente sia fatto apposta per renderla indecifrabile. Capita, qualche volta, che parlino tra di loro guardandoti fisso negli occhi. E’ chiaro: stanno parlando di te. Ma tu non puoi capire né di cosa né perché. La cattedrale è avvolta nei muschi. O forse sono licheni?… Comunque sembra che stiano per soffocarla. Oppure sono proprio loro a tenerla su, a impedire che cada, che si sbricioli. Già, potrebbe essere anche lei contagiata dal cancro che sta corrodendo la città, quello dell’ipocrisia, del paganesimo. Sì, è marcia di ipocrisia e di candele di cera gocciolanti che coprono tutti i peccati. Se tu fossi qui, Simone. Se fossi qui, fratellino, vedresti le donne di questo posto che vendono madonnine di latta davanti alla chiesa. Perdonami, devo farmi il segno della croce. E se non compri, ti lanciano le loro maledizioni. Ma tu qua non ci sei, Simone. Perché eri come questa gente. Tu, mamma, papà. Per questo vi ho dovuto uccidere col coltello grande di cucina. Sai che non potevo fare altro per salvare la vostra anima. E la mia, perchè voi volevate consegnarmi al diavolo. E io vi ho regalato a Dio. E dopo questo grande regalo, nonostante il mio gesto di devozione, anche qui sono inseguito da Satana e dagli dei pagani che lo ospitano sotto questi tetti. Sai, l’ho visto l’altra notte che mentre ballava con una venditrice di madonnine. Ballava e le metteva le mani addosso. Li ho uccisi tutti e due, sgozzati. Ma non mi illudo, lui tornerà. Anzi, è gia qui. Bussa alla porta. E’ vestito da gendarme. Beh, Simone. Adesso devo proprio andare. Un angelo mi aspetta dalla finestra per prendermi sulla sua schiena e farmi fuggire dal Demonio. Devo sbrigarmi prima che Satana sfondi la porta e che le statue sui tetti prendano vita e ci bombardino di medagliette e santini blasfemi. Guarda Simone com’è facile. Apro la finestra e volo…

Il mendicante di Oporto

Ha un faccia strana il mendicante seduto sui mattoni del marciapiede. Sembra bruciata dal sole. Ma vista da vicino è come le fiamme l’avessero consumata, arrostendola a fuoco lento. Eppure quel povero cristo non fugge il caldo d’agosto che pure sembra infastidirlo. Se ne sta lì, a far contrasto ai muri bianchi del cimitero, con una gamba in meno e le braccia straziate da ferite profonde ancora non completamente rimarginate. Dal portone di ferro nero del piccolo camposanto alla periferia di Porto stanno entrando tre persone vestite di nero. Dagli abiti sembrano povera gente, dai volti gente straziata dal dolore di una morte recente. Due sono donne. Una è sulla sessantina. L’altra molto giovane, la regge. Sono precedute da un ragazzo alto e magro, quasi curvo che tiene le mani nelle tasche posteriori dei calzoni piegando all’indietro i gomiti ossuti. Solo quando i tre sono molto vicino al medicante si rendono conto che il sorriso ruffiano che sembra aver stampato in volto, come fanno molti per commuovere i passanti e strappare qualche moneta, è in realtà pelle tirata dal fuoco a lasciar scoperti i pochi denti che gli sono rimasti. Non tende la mano e i suoi occhi scurissimi non implorano ne’ denaro ne’ compassione. Sono, piuttosto, pieni di orgoglio e colmi di un’espressione severa che pare rabbia. La donna più anziana si ferma e apre il portafoglio semi vuoto. Frugandoci dentro trova tre monete e le tende al mendicante mentre la giovane donna volta la faccia per il ribrezzo delle condizioni dell’uomo. Il velo di pizzo nero le si appiccica al volto bagnato di sudore. “Per la memoria di mio marito” dice la donna anziana. Ma l’uomo bruciato non tende la mano per prendere il denaro. Il ragazzo è ormai dieci passi avanti. Si volta e si ferma. Non ha il tempo di capire quello che sta succedendo. Segue l’istinto di ripararsi dietro una lapide. “Per la memoria di mio marito” ripete l’anziana faticando a chinarsi per posare a terra le sue monete mentre la vestaglietta scura copre malamente i suoi goffi movimenti ormai non più assistiti dalla figlia. La giovane è portata le mani alla bocca. Nemmeno lei fa in tempo a capire, né ad urlare di paura o di disperazione. Il mendicante ha infilato la mano sotto il sacco vuoto che sembrava gettato al suo fianco per raccogliere gli oboli e ha tirato fuori un vecchio fucile. Con una velocità insospettabile assesta due colpi precisi e cancella il pellegrinaggio al caro estinto della famiglia dolente trasformandolo in un massacro. “Tuo marito – dice l’assassino alzandosi lentamente, mentre con un lembo dei suoi stracci si pulisce il viso dove gli è schizzato il sangue delle donne – stai sicura che non lo dimenticherò”. Biascicava appena, quel poco che gli consentiva la faccia corrosa dall’acido che gli era piovuto addosso, che si era rovesciato sulla sua casa, che aveva ucciso, arso vive, quasi sciolto, la moglie e la figlia quando l’autista della cisterna, ubriaco, aveva perso il controllo ed era uscito fuori strada morendo sul colpo. La cisterna si era staccata dalla motrice e si era ribaltata su una povera casa che stava a valle della strada. Il falso mendicante ha terminato il suo lavoro. Abbandona lì il fucile, prende le sue stampelle e se ne va. Il giovane, unico superstite, mette fuori la testa dalla lapide dietro la quale si era riparato e guarda la madre e la sorella riverse a terra, morte. Cade seduto, sotto choc. Mentre tira fuori la fiaschetta del Maciera che tiene nel gilet fa in tempo a vedere sulla lapide che l’ha protetto la foto di una madre che stringe a se’ la sua bambina. Legge: “Morte per l’acido e per un uomo ubriaco. Il marito e padre promette giustizia”.

Il vento de La Coruña

Camminava lenta, evidentemente senza una direzione. Per nulla concentrata sui suoi passi arrampicati su un paio di zeppe ondeggianti in mezzo a una folla di pattini a rotelle e di raggi di biciclette. Non ricordo che faccia avesse, mi torna in mente solo quel fazzoletto verde legato al collo e tormentato dal vento atlantico. Doveva essere quasi estate, ma faceva ancora freddo. Il foulard le si attorcigliava dispettoso ai capelli. Ecco, sì. Ricordo il movimento infastidito delle sue mani sul viso. E la testa gettata indietro a sfuggire al groviglio di riccioli e stoffa. Io me ne stavo appoggiato alla ringhiera, lontano da casa e dai problemi, a godere del vuoto della mia mente. Lei veniva proprio nella mia direzione. Mi aveva quasi raggiunto. “Adesso la fermo” pensavo. Sullo sfondo le case bianche, aggredite dal salino, che si affacciano sul porto. Non c’era null’altro nella mia testa. Solo quelle verande scrostate. “Adesso la fermo” pensavo di nuovo mentre mi falcava davanti sempre più nervosa e ondeggiante, ma non mi staccavo dalla ringhiera, come stregato dal ritmo elegante della sua camminata. “Sì, la fermo e le chiedo di cenare con me. Mangeremo pesce al tavolino di un ristorante sistemato nella piazza appena svuotata dal sole e tappezzata da altre verande. Adesso la prendo e la porto via. E’ laggiù, basta fermarla. basta inseguirla tra i clown e gli artisti di strada che si dannano a divertire i pochi passanti rimasti in questa serata ormai semi deserta”. L’ho cercata con lo sguardo, lentamente. Era come se mi fossi addormentato per qualche minuto perché il grigio del tramonto aveva già opacizzato ogni cosa e lei sembrava essere stata spazzata via dal vento, inghiottita da una di quelle case. Ora, magari, mi guardava dietro la persiana di una di quelle verande. Era bastato aspettare ancora un minuto perché sparisse anche il mio pensiero di lei. Poi la luce era definitivamente calata. In Italia, pensavo, era già sera da un po’.

Double way in Berlin

“Io, stasera, andrò al museo. Troverò il tempo. So che non verrai” mi dice. E mentre parla alza un angolo della bocca. Può essere il suo solito modo di prendermi in giro oppure desiderio di venire contraddetta. “Buona la seconda” mi dico con spavalderia. Era quello che volevo, niente di più. “Questo non è detto” rispondo già di nuovo impacciato, mentre mi sento avvampare e già penso al contrasto tra il mio maglione verde acido e la mia faccia paonazza. Un attimo di vuoto assoluto, poi l’annuncio della ragazza del chek-in. Lei sorride. La intuisco sollevata di sottrarsi alla conversazione almeno quanto lo sono io: “Devo imbarcare, ci vediamo stasera a Berlino” sussurra con quella voce bassa, calda, quasi rauca che ogni volta mi fa sussultare al telefono. Raccoglie la borsa e lo zaino col computer dalla poltrona per infilarsi nel tunnel che la porterà via. Via dove io arriverò prima di lei perché per mia fortuna ho trovato posto su un volo senza scalo. E’ come se intorno non ci fosse nulla per qualche minuto. D’improvviso mi ritorna coscienza ben nitida della faccia del mio anziano vice presidente che mi guarda sornione. Confermo i suoi sospetti aggiustandomi il bordo della maglia con un gesto imbarazzato e buttando lo sguardo a terra. Per fortuna comincia subito anche il nostro imbarco e lui non ha il tempo di parlare. Guadagno il sedile come un automa, col solo desiderio di chiudere gli occhi e pensare cosa potrebbe diventare quella notte se riuscissi a trovare il coraggio, se lei aprirà solo una piccolissima breccia. So che c’è e che devo solo trovarla. Un’ora e mezza di volo passa in fretta se t’immagini frasi sussurrate a mezza voce, labbra da morsicare piano, mani che scivolano ovunque. All’atterraggio devo impormi di pensare a quanto di peggio mi viene in mente per evitare di fare la figura dell’adolescente ingrifato col mio collega che ora sta dormendo, ma che dopo, quando ci saremmo alzati, non potrebbe non notare quello stato di eccitazione che mi gonfia i pantaloni. “Non sarà così - mi ripeto -. Non capisci che si sottrae, che scivola via da ogni tuo discorso che tenta di spingersi oltre il lavoro?”. I suoi sfottò durano da anni. Da quando, meno che trentenne, diventai presidente della mia azienda. All’epoca avevo una fidanzata petulante e un’amante sposata e più grande di me. Quando Carla entrò nella stanza dove stavo seduto alla scrivania, lei che era abituata a trattare con chi mi aveva preceduto, fece subito capire che pensava di avere davanti un ragazzetto goffo e viziato, senza cultura e senza un briciolo di buon gusto nel vestire. Eppure non aveva che due anni più di me, proprio come quella donna che rappresentava l’unica mia ancora di salvezza contro il matrimonio, che caricavo in macchina inventando a casa un impegno di lavoro e mi portavo in un albergo di Montecarlo perché nessuno sapesse. Eppure contro Carla non avevo difese se non quelle di alzare la voce di tanto in tanto senza, peraltro, che il mio ruggire le facesse una grande impressione. Lei controllava la situazione, era amica dei potenti, mi aveva persino aiutato a condurre la trattativa che oramai durava da anni e che pensavo di concludere proprio in Germania. Spariva per mesi, ricompariva nella mia vita quando meno me l’aspettavo. A volte ero io a cercarla con una scusa, altre volte era lei che sembrava cercarne una per sentirmi. Anche l’anno scorso c’era stata la fiera a Berlino. “Stavolta ti porto a letto” le avevo detto al telefono, approfittando del fatto di non averla lì, davanti a me. Lei aveva cambiato discorso. Mi ero immaginato, come adesso, mani che scivolavano e labbra che si cercavano. Poi avevo avuto un contrattempo che mi aveva costretto a ritardare la partenza. L’incontrai solo per un attimo all’aeroporto di Monaco, dove lei stava aspettando la coincidenza col volo di ritorno e io quella per andare alla fiera. L'avevo vista, poi, solo il maggio seguente a un’assemblea. Dopo eravamo andati a prendere un aperitivo. Lei regge l’alcol. Io no. Le raccontai una montagna di bugie per darmi un tono, le avevo detto che, oltre alla fidanzata petulante che ormai era diventata mia moglie, di amanti ne avevo addirittura due, belle e giovanissime. Lo capivo che ne era infastidita, ma non riuscivo a determinare se la sua insofferenza fosse una punta di gelosia inconfessata o il fastidio che le donne provano nei confronti degli uomini infedeli, anche se non sono i loro e soprattutto se hanno dei figli. Le avevo raccontato, allora, che mia moglie non mi stimava che non perdeva occasione per farmi pesare il suo denaro. E mentre parlavo, mi accorgevo che lei mi stava incasellando in quella categoria di uomini che hanno mille modi per dire “Mia moglie non mi capisce”, ma in realtà intendono “Sono sposato, ma non me ne faccio un problema”. L’unica cosa vera era che mia moglie mi trattava come uno straccio, ma ormai la frittata era fatta. Avevo avuto occasione di correggere il tiro solo a settembre, durante un sopralluogo. Pensavo sarebbe arrivata, come sempre pettinatissima e truccata, con la sua penna nera e il taccuino in mano. Invece arrivavano tutti, meno che lei. Le avevo telefonato e quando mi aveva risposto, l'avevo vista avanzare da lontano, proprio come me l’ero immaginata. Era al fianco di un assessore che le teneva una mano sulla spalla. E quella cosa non mi piaceva. Mi aveva detto semplicemente: “Ti vedo. Sono qui, arrivo”. Avevo balbettato un traballante “Temevo non ti avessero avvertita”, ma lei aveva già riattaccato. Si era avvicinata a me, io le avevo teso la mano. Lei si era alzata sulle punte dei piedi per baciarmi e mi aveva sussurrato “Stai tranquillo” con quella sua solita voce che mi faceva salire la pressione a mille. Quindi aveva continuato il suo lavoro, disinvolta come sempre. La cercavo con lo sguardo in mezzo a tutta quella gente. A volte incontravo il suo e non potevo fare a meno di avvampare. Mi chiedevo se anche lei stesse cercando di capire dove ero o se era solo casualità. Alla fine le avevo offerto un passaggio, ma lei aveva detto che sarebbe tornata indietro con l’assessore che l’aveva portata fin là. Di nuovo la gelosia, di nuovo l’invidia per quell’uomo che poteva essere suo padre, per il solo fatto che avrebbe condiviso la strada con lei. L'avevo richiamata il giorno dopo per ringraziarla: sapevo che aveva speso ancora una volta una parola per me, per la mia azienda. Ne avevo approfittato per dirle che avevo lasciato tutte le amanti ed ero rientrato nei ranghi familiari. Ancora una volta aveva cambiato discorso. Ci siamo sentiti solo alla fine di gennaio. E’ stata lei a chiamarmi, con una scusa davvero banale. Ho inventato sul momento che stavo cercando di far venire anche lei a Berlino e che quest’anno sì che l’avrei portata a letto. Mi ha risposto solo di non fare lo scemo, ma mi è sembrato di intuire un imbarazzo particolare nella sua voce, come di chi si vergogna di parlare di una cosa che in realtà desidera. Ce l’ho fatta, ho organizzato il viaggio a Berlino. No, non come avrei voluto. Anche perché non posso confessare a chi ha fatto le prenotazioni per tutti che tenterò di prenderla, questa volta sul serio, a costo di rimediare un ceffone e di non vederla più. Così è finita su un altro aereo e in un altro albergo. Le prenotazioni sono state fatte all’ultimo minuto e non c’era posto per tutti sullo stesso volo e nello stesso hotel. Quando l’ho vista in aeroporto, non ho potuto non notare che sembrava armata per la battaglia come solo le donne sanno fare. Sì, ma con chi aveva intenzione di "combattere"? Le sue unghie lunghissime erano laccate di rosso e la sua bocca era tinta dello stesso colore, per lei davvero inusuale. Che è successo? Forse quel potente assessore… anche lui verrà. Ci sarà anche il sindaco. Insieme possono rovinare il mio lavoro di anni, il mio e quello di tutti i miei soci, con una sola parola. Cerco di pensare a questo per demolire il mio stato di eccitazione. Non è facile, perché la testa torna a quelle labbra carnose e rosse, a quelle unghie color lacca cinese che immagino scivolare lievi su di me, scendere dal viso al torace e da lì sempre più giu. Quando arrivo in aeroporto a Berlino tento di tergiversare per vedere se riesco ad aspettarla, ma la mia valigia arriva in tempo record e il mio socio sembra avere fretta. “Dai, che aspetti – mi chiede -, la tua amica bionda? Non farai mica lo scemo?”. Sono costretto ad andare e a sperare che mi chiami lei quando arriverà. Aspetto, aspetto, aspetto. Apro e chiudo la valigia. Penso a come mi vestirò. Mi guardo attorno. Sono finito in una specie di residence per turchi immigrati. L’unico confort è un piccolo frigo. Lo apro. E’ acceso, ma vuoto. Come la mia testa. Chiamo l’organizzatore del viaggio, l’amministratore delegato di una società che lavora con noi. Non posso scoprirmi. Lui, come me, è sposato. Il suo è un matrimonio felice, sua moglie è in gamba. Lavora, tiene la casa, gestisce i figli. Il tutto in Germania, mentre lui lavora in Italia e torna di corsa dalla sua famiglia appena può. No, non posso subito chiedere di lei. Mi scoprirebbe, mi biasimerebbe. Quindi chiedo notizie di “tutti”. Lui, parla, parla di ogni componente della spedizione. Solo alla fine mi dice che Carla è arrivata in albergo e che gli ha detto che se ne andrà da sola a vedere il museo perché la sua collega vuole restare in camera. Ha poco tempo, anche se oggi è giovedì, la giornata dell’apertura serale dei musei. Non mi chiamerà. Lo farò io. Prendo il giubbotto e penso di raggiungerla con un taxi. No, meglio che mi prepari per la serata. Certamente troverà qualcosa che non va nel mio abbigliamento e mi prenderà in giro per una cravatta non azzeccata, per il colletto della camicia, per gli abbinamenti di colore. Sono già le otto meno un quarto e alle nove abbiamo appuntamento al Park Inn in Alexanderplatz. Dico al mio socio di sbrigarsi e lui mi guarda storto, ma non dice niente. Non credo di riuscire a dissimulare la mia ansia di rivederla. Quando arrivo, con mezz’ora di anticipo, è già cominciato a nevicare. Non c’è. Il sindaco e l’assessore sono seduti attorno a un tavolino basso con l’amministratore delegato dell’azianda con cui condivido lo stand alla fiera, quello che ha materialmente organizzato tutto. Vuol dire che non erano con lei. Mi scopro a tirare un sospiro di sollievo. L’assessore racconta di quando quello era il sovietico albergo Kosmo. Oggi è pieno di uomini d’affari occidentali e di turisti. Mi siedo e subito comincio a tamburellare con la scarpa sul tappeto. Vedo arrivare la sua collega, una trentenne estremamente convinta di un fascino in realtà inconsistente, con una faccia cavallina e i capelli lunghi e lisci. Dietro c’è lei che cammina lentamente intabarrata in un piumone nero lungo fino ai piedi. Abbassa il cappuccio ed esce il suo ciuffo dorato. Il rossetto non c’è più e mi sembra di nuovo se stessa. Mi alzo e mi tremano le gambe. Anche il sindaco si alza. Le dà la mano. L’assessore, invece, la bacia sulla guancia. Tra loro c’è una confidenza che non capisco e che mi spaventa. Certo, è un uomo affascinante. Già un uomo di potere. Ma potrebbe essere suo padre. “Tutto bene?” chiede lui. “Certo che sì – risponde lei con tono di rimprovero -. A parte che come al solito voi uomini siete inattendibili e inaffidabili e noi donne, per fortuna, autosufficienti. Mi avevi detto saresti venuto con me al museo...”. Butta lo sguardo dalla mia parte. Forse sta rimproverando me, non lui. Vorrei fosse così, oppure, invece, nemmeno si ricorda che le avevo detto che l’avrei accompagnata. “Sì, scusami, sono andato in camera a riposare, ero un po’ stanco. Noi siamo arrivati stamattina e abbiamo girato parecchio” spiega l’assessore. Lei fa un passo verso di me. Mi chino a baciarla. E mi accorgo che sto di nuovo avvampando. Sento il profumo dei suoi capelli. Vorrei affondarci il viso. E’ un attimo infinito. Mentre mi sollevo lei comincia a parlare. “Ho trovato un tassista curdo simpaticissimo – racconta -. E’ di Urfa, nel Kurdistan turco. Ci sono stata quest’estate. Abbiamo parlato un po’. Mi ha anche fatto vedere le foto dei suoi figli e mi ha fatto lo sconto”. E’ incredibile: riesce a chiacchierare con un curdo a Berlino e a parlare con lui del posto dove è nato. E’ anche per questo suo modo di essere che desidero che sia mia. Mi basterebbe semplicemente passare la notte accanto a lei. Senza parlare, senza muovere un muscolo. Tenendola vestita tra le braccia. Niente di più. Tanto non credo riuscirei a combinare altro. Lei mi paralizza. O, forse, la vorrei per la vita, ben sapendo che mi riuscirebbe difficile tenerle testa. Ma voglio veramente mandare all’aria tutta la mia vita per lei? Usciamo per raggiungere la torre della televisione, dove abbiamo un tavolo prenotato. Lei apre l’ombrello per coprire se stessa e l’assessore. A me non resta che infilare il berretto e chiudermi nel giubbotto. La neve sta coprendo Alexanderplatz. Arriviamo all’ascensore che ci porterà al ristorate girevole. Cerco di sistemarmi accanto a lei, ma il mio socio si infila in mezzo. La guardo mentre, col naso in su, fissa il display che indica l’altezza da terra. Lei gira la testa, mi vede. Io mi volto, ma ormai è tardi. Usciamo e ci affacciamo sulla città che diventa bianca. “E’ come il ristorante dell’albergo dove sono stata a Shangai – spiega -. Il disco esterno, dove sono sistemati i tavolini, gira attorno alla parte centrale che sta ferma”. Comincia a parlare dei ristoranti girevoli che ha visto. Ad esempio quello di Las Vegas. Mi affascina quel suo essere a casa ovunque, quella sua capacità di non essere fuori luogo in qualsiasi posto. Il sindaco e l’assessore lasciano alle signore i posti accanto ai finestroni e si siedono accanto a loro. Incominciano a chiacchierare di politica e di città del mondo, di cucina internazionale e di economia. Io, il mio collega e il presidente nazionale della mia associazione, un latin lover un po’ passatello, siamo tagliati fuori. E’ lei a recuperarci di quando in quando, facendoci una domanda per tentare di coinvolgerci. No, la discussione non ci appartiene mentre lei è completamente a proprio agio. Passo la serata alla ricerca di uno scambio di sguardi più che amichevole tra lei e l’assessore. Non accade niente di tutto questo. Invece lei, spesso, fissa il mondo fuori dalla vetrata. Ad un tratto incontro i suoi occhi riflessi nel vetro. Sta guardando me, non i tetti dei palazzi. Prendo coraggio e quando ci alziamo cerco di rimanere indietro con lei. Raccolgo il fiato che mi rimane e le infilo una mano tra i capelli, poi le cingo la vita con il braccio. "Peccato che dormiamo in alberghi diversi, altrimenti ti porterei a letto" le dico, cercando di avere un tono scherzoso. E spero che lei mi autorizzi dicendomi una cosa del tipo “esistono i taxi” oppure “i nostri hotel non sono poi così lontani”. Invece risponde piccata “Sono anni che lo dici ma non lo fai mai, è il caso che tu la smetta”. La battuta arriva all’orecchio del presidente dell’associazione che forse sta anche lui in fondo al gruppo per parlarle. L’aveva già adocchiata l’anno scorso. Mi aveva chiesto informazioni e gli avevo detto che è sposata e che non era cosa. "Ho capito, è roba tua" mi aveva risposto. Gli avevo lasciato credere che fosse così. Lui non se ne lasciava scappare una, era sempre sul chi va là, sempre pronto a fare il galante e, se la donna “rispondeva”, ad andare oltre senza usare mezzi termini. Non volevo che ci provasse anche con lei. Ero praticamente certo che non ci sarebbe stata. Già… quasi certo. Ma non potevo metterci le mani sul fuoco. E se non fosse stato così? Che avrei pensato? Che avrei detto? Che avrei fatto? Comunque ora lui sa che tra me e lei non c’è niente. “Mi rovini la reputazione dell’associazione - dice sghignazzando -. Domani ti mando una lettera di espulsione, non puoi fare il vice presidente, ci rovini la media se non prendi tutte le signor che ti passano davanti”. Ma mentre lo dice, si accorge che lei non si stacca dal mio abbraccio e, anzi, mi ha messo la mano sul fianco e ha appoggiato la testa sul petto. Io le rimetto la mano tra i capelli e le accarezzo la nuca. Sento un brivido scenderle lungo la schiena e il suo piacere diventa il mio. Camminiamo così fino alla scala, dalla quale non possiamo passare avvinghiati. Usciamo dall’androne per ritornare al Park Inn. Lei riapre l’ombrello e protegge ancora una volta l’assessore dalla neve lasciandomi indietro. Parlano fitto fitto fino a quando non lo lasciamo col sindaco all'hotel. Carla propone di andare a bere qualcosa. Io dico di no, che sono stanco. Sarebbe solo perdere tempo perché verrebbero tutti e io voglio poter parlare con lei da solo. Il mio progetto è quello di portare in albergo il mio vice presidente e di chiamarla, di proporle di uscire, se avrò il coraggio anche di raggiungerla in hotel. Lei sale sul taxi con la sua collega e con il presidente della mia associazione. Lui ha fretta, spiega che, al contrario di “noi giovani”, ha da fare questa sera e ha fretta di rientrare in albergo. Ha una donna a pagamento che l’aspetta. Come vorrei essere come lui, come vorrei fregarmene di tutto e di tutti, prendere quello che voglio e ignorare quello che non posso prendere. Forse il mio collega ha capito i miei progetti perché mi schiaccia l’occhio mentre chiude la portiera. Ha capito anche il mio vice presidente perché mi marca stretto. Mi ha visto crescere, è amico di mio padre, conosce mia moglie e ha tenuto sulle ginocchia mio figlio. Certo che ha capito e ha capito anche che non è una storia di sesso, di quelle “una botta e via”. Per questo non è disposto a lasciarmi fare. Mentre saliamo le scale di quella topaia, mi dice in dialetto che ci sono cose nella vita che valgono più di altre e che devo ricordarmene. “Se vuoi parlare, ragazzo - continua - la mia camera è accanto alla tua e io adesso non ho sonno. E' come se fossi tuo padre, lo sai”. Il messaggio è chiaro e gli dico che va tutto bene e intanto penso che sarà difficile riuscire a uscire dalla stanza senza essere scoperto. Sono stanco morto, ma non riesco a prendere sonno. Vorrei chiamarla, ma non saprei cosa dirle. Potrei aspettare un paio d'ore e poi andare nel suo albergo. Sinceramente non so nemmeno dove è. Se avesse voluto me l’avrebbe detto lei quando le ho detto che “se fossimo stati nello stesso albergo…”. Credo, comunque, che non mi lascerebbero entrare. Non so l'inglese e tantomeno il tedesco. Come farei a spiegare all'impiegato della reception? E se con lei ci fosse qualcuno? Se si fosse accordata con l'assessore quando camminavano sotto la neve e fosse stato lui a raggiungerla in hotel? Tutta la sera ha scambiato messaggi con qualcuno, sorridendo quando ne riceveva alcuni, affrettandosi a rispondere quando ne arrivavano altri. E se, approfittando di essere lontana da casa, avesse appuntamento con quello col quale parlava via sms? E se, una volta là, lei mi dicesse che non devo romperle le scatole. No, non posso andare. Preferisco non sapere, credere che stia dormendo da sola sotto le coperte. Mi addormento anche io, ma ormai sono le quattro. La sveglia suona alle sette e mezza e io sono a pezzi. Ho sognato per tutta la notte mio figlio. No, per fortuna mi sono fermato. Posso tornare a casa e guardarlo in faccia. Il mattino dopo il Destino ci mette una mano. Impossibile trovare un taxi, sono tutti occupati per le diverse manifestazioni che ci sono a Berlino. Chiamo l’amministratore delegato tutto casa e bottega. “Passaci a prendere – gli dico -. Ci lasci al Park Inn, lì ci sono maggiori probabilità di prendere un taxi al volo”. Quando l’auto arriva lei è già sul sedile posteriore, di nuovo con quella bocca infuocata. Tento di infilarmi accanto, nel posto centrale, ma la sua collega scende dalla portiera anteriore e mi dice che sono “lungo” e che dietro non ci sarei stato. Mi cede il posto, mannaggia. Io, che già mi immaginavo appiccicato a Carla come un francobollo, con il braccio dietro la testa e la mano ad accarezzarle il collo e l’orecchio per capire se il brivido di ieri era solo un caso, devo accettare mio malgrado perché il mio collega si ingrugnisce e mi ordina: “E vai!”. Il sindaco e l’assessore propongono di passarli a prendere in un secondo momento. Così arriviamo vicino alla fiera. Dobbiamo scendere e farne un pezzo a piedi, perché il traffico va a passo d’uomo. Io ho il pass espositori. Lei e la collega si registrano al banco della stampa e poi lasciano i cappotti al guardaroba. Io le aspetto. Quando arrivano all’ingresso, il mio collega inizia a parlare con lei. Vuole tenermela lontana. Arrivati allo stand, io ho già due persone che mi aspettano. Lei parte per fare un giro della fiera mentre aspetta l’assessore e il sindaco per la conferenza stampa. Io incontro un altro gruppo di persone e ogni tanto mi giro per vedere se è tornata. D’improvviso sento la sua voce, mi giro un’altra volta. La vedo seduta proprio dietro di me, così vicino che posso sentirne il profumo. La sua collega sta mangiando avidamente un cestino di fragole recuperato allo stand di fronte. Lei ne prende una per il ciuffo verde e ne mette metà in bocca. Le sue labbra si chiudono attorno al frutto. L’eccitazione mi prende e mi travolge. Vorrei mangiare insieme quella fragola e la sua bocca. Vorrei incollare Carla alla paratia, qui, davanti a tutti, e schiacciarmi contro di lei per sentirmi addosso i suoi seni, percepire il calore tra le sue gambe. Vorrei prenderla, vorrei che fosse mia e che tutti lo sapessero. Invece non trovo di meglio da fare che avvampare un’altra volta e dire “Ciao. Sei qui? Tutto ok?”. “Sì, tutto ok” risponde lei sorridendo. Poi arrivano il mio anziano socio, il presidente d’associazione, il sindaco, l’assessore, le telecamere, gli altri giornalisti. E addio magia. Addio occasione, addio tutto. Viene scattata qualche foto. Anche lei ha la macchina fotografica in mano. Io guardo dentro il suo obiettivo. Immagino di entrarci dentro, come vorrei entrare dentro di lei. C‘è ancora il tempo per fare un giro della fiera. Ovviamente tutti assieme. Lei parla con gli espositori in almeno quattro lingue. Io non capisco niente, ma mi piace vederla così, allegra, divertita. Poi prende il sindaco sotto braccio e si allontana con lui. Quando torniamo al nostro stand, lui ci concede quello che chiedevamo da mesi, come se nulla fosse, come se fosse la prima volta che glielo chiediamo. Lei sorride sorniona, addentando un’altra fragola. Sembra che l’abbia fatto apposta per eccitarmi e ci riesce. Per qualche minuto è meglio che non mi alzi. Poi se ne va, coi politici e la sua collega. Chissà quando la rivedrò? Il giorno dopo mi manda un messaggio per chiedermi un’informazione. Io, che sono ancora a Berlino, la chiamo solo per sentire un’altra volta la sua voce. “Lo sai che non mi piace scrivere messaggi” le dico, tentando di trovare una scusa a quella telefonata. La ringrazio per quello che ha fatto, lei dice di essersi divertita. Tutto molto professionale. Deve esserci suo marito vicino. O forse è in redazione. La stessa cosa, a ruoli inversi, succede il giorno dopo, quando sono in montagna con la mia famiglia. Mia moglie chiacchiera al telefono di sciocchezze con sua sorella. Mio figlio si è addormentato nel sedile posteriore dell'auto. La mia signora continua a blaterare di parenti, di vestiti, di cene. Io ricevo un messaggio e mi sembra un’ancora di salvezza. E’ lei. La chiamo “Dove sei?” le chiedo. “In ufficio” risponde. Anche di domenica? Sì, anche di domenica. Non trovo di meglio da dire che “In redazione anche oggi? Sei una donna da sposare”. Lei incalza: “Ma bene! Siamo già passati dal letto al matrimonio… che noia” e scoppia in una sonora risata. Già, che noia. Io non posso parlare. Non le posso spiegare che mia moglie è accanto a me e che se non ci fosse le direi ben altro. Come l’altro giorno, il lunedì prima di partire, quando avevo esordito dicendole “Ciao amore mio”, approfittando del fatto che tra noi ci fossero il cavo del telefono e qualche chilometro. Non posso, adesso, dire a Carla che se non ci fosse mia moglie, se non ci fosse mio figlio, le ripeterei, dicendo la verità, che ho voglia di portarla a letto per rimanerci tutta la vita. Che avrei voglia di prenderla senza diritto di replica, anche con la forza, se occorresse. Penso che anche lei ha un marito. Che stanotte ha dormito tra le sue braccia e lui ha affondato la faccia tra i suoi capelli, forse ha anche preso quello che io non posso prendere. Sono pazzo di gelosia. Mentre parlo pesto sull’acceleratore. Mia moglie se ne accorge, interrompe il suo inutile chiacchiericcio e mi dice: “Scemo, vai più piano”. Devo posare. “Ciao, bacio e grazie” dice lei. “Grazie a te” sospiro io. E mi incespico nelle parole. Grazie di cosa? Di un minuto di parole scambiate alla chetichella. Di un piccolo tempo rubato. Non so quando la rivedrò, quando potrò sentirla. Troverò una scusa. Troverà una scusa. “Prima o poi la porterò a letto” penso. Poi guardo nel retrovisore. Mio figlio dorme sereno. “Va bene, poi”.
Second Way
Cosa è che ci incanala nel turbine onirico dell’emozione, che ci accompagna nel delirio febbrile di un inconfessabile sussulto del corpo, che ci butta i pensieri nel gorgo di un lavandino che gira al contrario come l’acqua che scarica nell’emisfero sud? Un gesto frenato a stento, un impercettibile tremito nella voce, uno sguardo sfuggito a cercare chissà mai cosa. Probabilmente nulla. Forse un altro piccolo gesto, forse un dettaglio da imprimere nella mente per i tempi di astinenza, di assenza di contatto. Il dettaglio è un sorriso imbarazzato sopra un maglione verde acido, è il rosso del suo volto metà bambino e metà uomo. Lo guardo negli occhi piccoli eppure profondi. So che è imbarazzato e provo piacere nel sentirlo. Ha un significato, potrebbe avere una controindicazione. Vuol dire che quando mi ha detto “Stavolta ti porto a letto” non mentiva nelle intenzioni, ma anche che probabilmente non lo farà perché non sa da che parte cominciare. “Io, stasera, vado al museo. Troverò il tempo. Lo so che non è cosa per te, non mi aspetto che tu venga” gli dico. “Questo non è detto” mi risponde, ma io so già che antepone gli affari a qualsiasi cosa e l’arte antica è l’ultima cosa che sta nei suoi pensieri. Vorrei dirglielo, prenderlo in giro ancora una volta, ma il fatto che con me ci sia la collega di un altro giornale mi chiude la bocca. Per fortuna è l’ora di partire. La ragazza del ceck-in chiama. “Devo imbarcare, ci vediamo stasera a Berlino” gli dico cercando di dare le sfumature giuste perché sembri un po’ minaccia e un po’ promessa. Saluto il tipo anziano che è con lui e mi butto nel tunnel che porta all’aereo. Io farò scalo a Monaco, lui ha trovato un volo diretto. Arriverà prima di me. So già che non lo troverò all’aeroporto ad aspettarmi con un fascio di rose. Perché lui è così. Gretto? E’ semplicemente un uomo pratico. Al suo ruolo non si richiede sensibilità e stile. Non gli mancano i quattrini e quindi porta addosso anche roba di un certo gusto, ma la associa con una casualità disarmante. Ha, però, quell’intuito che certe volte hanno gli uomini d’affari, insomma l’evoluzione del cervello fino dei contadini. E poi ha polso, riesce a dominare le situazioni. Forse è la forza del denaro o l’inconsapevolezza dell’età. Ha 38 anni, due meno di me. Per un uomo non sono moltissimi. Il segno zodiacale non lo ricordo. Direi un toro o un capricorno. Quando l’ho conosciuto, ormai dieci anni fa, aveva appena preso in mano l’ azienda. Ne avevo visto passare tre al suo posto e molto velocemente. Di una cosa mi stupii. Invece del solito Rolex in oro massiccio, status symbol della sua categoria, aveva un Baume & Mercier ultrapiatto. All’epoca non mi curai più di tanto di lui. Piero era un ragazzino. Io una donna già fatta con un bagaglio di esperienze più o meno devastanti e devastate. E’ un po’ che lo vedo con occhi diversi. Forse sono io che sto invecchiando. Anzi, certamente è così. Sono stanca di parole, di uomini che ti inebriano di frasi, oppure noiosi o, invece, preda di follia più o meno lucida che col tempo si distilla in cattiveria ed amarezza. Se per una volta provassi un maschio? Un maschio punto e basta, di quelli che non pensano, che non immaginano, che vanno diritti alla questione. Mi siedo sull’aereo, incastrata accanto al finestrino. Vado avanti col pensiero, tanto devo pur passare il tempo e la lettura dei giornali stamattina non mi entusiasma. Gioco con la mia mente a immaginarmi per 24 ore preda e predatrice di quel giovane uomo, alto, massiccio senza essere grasso, ben al di sotto della mia media d’età che viaggia oltre i cinquanta. In fondo sono lontana da tutto e da tutti. Sono abituata a guardarmi dentro e quindi so che mi sto mentendo. Mi sto mettendo in un gioco pericoloso perché lui mi piace davvero. Mi piace la sua voce profonda, mi piace come mi guarda perché sembra spogliarmi ogni volta, mi piace quel suo essere il principe dei trogloditi che sa stare alla tavola dei re. Non possono non dirmi, adesso, che la vera paura che ho è che anche in questa occasione il suo “Stavolta ti porto a letto” sia un modo di scherzare. Ha una bella moglie, un figlio delizioso. Certo, qualche tempo fa mi ha detto che la donna che ha sposato non lo stima. E che ha avuto tre amanti. Due recentemente. Ragazzine dal bel fisico. L’altra, che ha la mia età, prima di sposarsi. Lui dopo sei anni di fidanzamento, stava mandando all’aria la cerimonia, ma lei a sua volta era sposata e ha preferito rimanere dove era, quindi Piero è rientrato nei ranghi. Mentre scendiamo tra le nuvole per l’atterraggio penso al mio sovrappeso. No, certamente non gli piaccio fisicamente. Ho un’unica carta: quella dell’esperienza, dal fascino, del mio ruolo che mi fa interessante ai suoi occhi. Beh, me la giocherò proprio come fanno gli uomini. Scuoto la testa mentre il carrello tocca terra. Non ho alcuna chance. Certo, lui mi chiama spesso, ma è roba di lavoro. Dopo un’ora e mezzo di attesa a terra, di nuovo il decollo. Mi addormento sognando di accarezzare la sua fronte accigliata, di ascoltare la sua voce profonda che a volte sa sussurrare, di avere addosso le sue mani grandi e robuste. Sì, forse mi basta sognare per fuggire alla normalità che non mi appartiene e dentro la quale da otto anni mi costringo per non soffrire e che ora, con la morte di mio padre, i dolori, i doveri che mi sono arrivati sulle spalle mi hanno cucito saldamente addosso. L’ho già fatto almeno tre volte di scappare nel sogno. E sono riuscita ad accontentarmi di questo. Per non distruggere quello che ho costruito, per non scoppiare. I sogni restano sogni, sogni di frasi sussurrate, di allegria, di emozioni. Non fanno male a nessuno, nemmeno a me. So già che domani sera, quando tornerò indietro, nulla sarà cambiato. Lo so, ma ho deciso di godermi uno ad uno i secondi che scorrono in queste 24 ore. Quando arrivo, la persona che ha organizzato tutto, l’amministratore di un’azienda che collabora con quella di Piero, dice che il sindaco e l’assessore sono in camera a riposare. Loro sono arrivati la mattina e hanno girato molto. Non chiedo di lui. Se vorrà, si farà sentire. Altrimenti… pazienza. Il gioco che ancora una volta ho cominciato ha delle regole. La prima è quella di non scoprirsi, non relazionarsi mai veramente con l’oggetto del sogno perchè il rischio è quello di vederlo interrompere bruscamente facendoci anche una pessima figura. Prendo un taxi per andare da sola al museo. Il tassista fa finta di non capire l’inglese quando gli dico che sta sbagliando strada. Gli chiedo di scendere e lo pago. Comincia a nevicare e io mi chiudo nel mio piumino lungo fino ai piedi e tiro su il cappuccio. Cerco un altro taxi, tenendo in mano il telefono, nel caso potesse squillare. Finalmente ne arriva uno. Chiacchiero con l’autista, credo in inglese. Beh, non ricordo. Comunque ci siamo capiti. Gli spiego cosa ha fatto il suo collega. Alla fine scopro che è di Urfa, un posto del Kurdistan turco dove sono stata questa estate. Alla fine della corsa mi fa vedere le foto dei suoi figli e mi fa anche lo sconto. Sono queste le cose che mi fanno capire che sono sola al mondo: questo mio modo di essere, di vivere. Senza barriere se non quelle che gli altri insistono a mettere sul mio cammino. “… io l’amore l’avevo in mente/ ma ho conosciuto solo gente/ e posso solo andare avanti/ fintanto che nessuno è come me”. Salendo lo scalone del museo mi frulla in testa questa strofa di una canzone di Fossati. Vado a vedere la testa di Nefertiti. Ho poco tempo e quasi tutto il resto di quanto è esposto l’ho già visto, simile, in Egitto o al museo di Torino oppure chissà dove. Esco e chiedo al piantone se Alexanderplatz è vicina. Si, posso andare a piedi. Sono dieci minuti precisa l’uomo. Io ce ne metto quindici perché mi fermo a fare delle foto. Nevica sempre più forte. E intanto canticchio un’altra canzone: “So cos'è che non va/ disabitudine alla realtà/ come dire sono/ sola”. Non sto male. Sono soltanto in una perenne situazione di noia. Con me stessa sto benissimo, con gli altri sempre peggio. Quasi tutti mi deludono. Qualsiasi persona conosca, donna o uomo che sia, ci gioco finché non mi annoia o non la rompo trovando le sue debolezze. L’interesse tramonta e vado oltre. Ragiona, ragiona, un passo dopo l’altro, sono arrivata al Park Inn dove ho appuntamento con tutti. E’ facile vederlo: ha un’enorme insegna luminosa ed è altissimo. Ho con me il rossetto, ma non ho voglia di darmelo. Per chi? Per cosa? Non sarà certo quello che farà sparire i miei chili in più e le mie rughe. Appena entrata vedo la mia collega. E’ appena arrivata. Insieme ci dirigiamo verso la hall dell’albergo passando davanti a un bistrot coperto. Ci sono alti sgabelli sui quali sono sistemate delle piante di orchidea. Poi dei paraventi e, dietro i paraventi, altri tavolini. Penso che mi ci vorrebbe un drink. Inutile sperare in un cocktail Martini decente. Mi va bene qualsiasi cosa, basta che ci sia del gin. Offuscare la mente in questo modo è diventata per me l’unica strada per alleviarle i pesi dell’anima. E' sbagliato, lo so. Ma è così. Quando arriviamo si alzano tutti. “Tutto bene?” mi chiede l’assessore. Io mi ero già preparata la frasetta da dirgli, visto che anche lui aveva promesso di venire con me al museo archeologico. Ovviamente col preciso intento di rimproverare, in realtà, l’imprenditore. “Certo che sì. A parte che come al solito voi uomini siete inattendibili e inaffidabili e noi donne, per fortuna, autosufficienti” dico e al contempo giro la testa verso il mio oggetto di sogno. Lui pare accusare il colpo. Si avvicina a me, si china, mi bacia sulla guancia. E’ di nuovo paonazzo. Non riesco a capire se questa volta è il freddo, se è un suo stato ciclico o se il rossore è realmente legato a un’emozione, all’imbarazzo. Penso che una volta di più non mi so innamorare degli uomini, ma mi travolge l’idea di loro che mi costruisco. Lui ha fortunatamente abbandonato il maglione verde “fosfo” (quanto cachemire sprecato) ed è vestito di marrone. Bell’abito. Ma la camicia ha il bottondown, che con il vestito elegante e la cravatta traslucida fa proprio a pugni. “Almeno i colori sono in armonia, abbiamo fatti un passo avanti” penso. E sto per dirglielo. Ma mi morsico la lingua: non posso mica massacrarlo davanti a tutti. Racconto, invece, quanto mi è successo mentre usciamo dalla hall per dirigerci alla torre della televisione dove abbiamo un tavolo prenotato. Io apro l’ombrello e copro me stessa, cioè la piega ormai malandata dei miei capelli, e l’assessore che ha dimenticato il cappello. Lui, l’imprenditore, trotterella dietro di noi col suo cappello con la visiera a coprire l’incipiente e prematura calvizie. Entriamo in ascensore. Se avesse un benché minimo interesse si sarebbe avvicinato a me, penso. Impacciata, fisso il display che segna i metri che stiamo salendo. Mi sento osservata. Mi giro. E’ lui che mi sta guardando. Si volta di scatto. Perché mi guarda ma non si avvicina? Che ha in testa? A parte quel ridicolo berretto da monello con la visiera, intendo. Il suo socio, un signore oltre i settanta, sembra più ansioso di lui di parlarmi. Non so che fare. La salita è fatta di attimi lunghissimi. Per riempirli parlo del ristorante girevole in cima al grattacielo di Shangay e di quello di Las Vegas. Gli uomini lasciano a noi signore i posti accanto ai finestroni. Ovviamente il mio amico si incolla accanto al sindaco che a sua volta è seduto vicino a me. Certamente vuole strappargli una promessa. Cerco di non disturbare il suo lavoro, di guardare fuori mentre la neve fiocca e la città si copre di bianco, di silenzio, di freddo. Piano piano, mentre l’orologio avanza, spariscono le luci delle auto. Al tavolo c’è anche il presidente dell’associazione nazionale della categoria dell'imprenditore, un tipo ben in là con gli anni che assomiglia fisicamente a Mike Buongiorno. Stesso taglio di capelli strategico, a coprire le zone dove capelli non ce ne sono più, stesso doppiopetto. Che fosse un dongiovanni oltre i limiti d’età l’ho imparato lo scorso anno e per questo me ne tango a distanza. La mia collega parla fitta con l’assessore. So che non le dirà niente che lui stesso non riferirà a me il giorno dopo. Io cerco nel riflesso dei finestroni di vedere Piero. Il gioco mi riesce un paio di volte, ma alla terza trovo i suoi occhi diretti nei miei. Sta facendo la stessa cosa. Forse ha bisogno di una mano nella conversazione. Eccomi col “salvagente”. Certo che un uomo così giovane davanti a un altro uomo, anziano e potente, dalle cui scelte dipendono la sua azienda e la sua vita, può trovarsi ad annaspare. Nel frattempo scambio messaggi con un mio (ex) amore. Con lui sì che mi divertivo, ma il mio fisico e la mia psiche non reggevano più. Ha rischiato di andare all’altro mondo. Ora sta meglio, ma io non gli permetto di rientrare nella mia vita. Troppo pericoloso. Mi fa piacere sapere che c'è. Ci mandiamo qualche e-mail, un messaggio e, qualche volta, ci incontriamo. Ma di rado, perché non vorrei che la mia noia mi mal consigliasse. Con lui sarebbe più di tutto e meno di ogni altra cosa, sogno e incubo assieme. Meravigliosa emozione. Ghiaccio e acqua bollente, quegli estremi che tengono viva l'anima. Ma io adesso non posso permettermi di finire in un frullatore. E’ venuto il momento di alzarsi e di andare in albergo. Chiederò a Piero di fermarsi a bere qualcosa. Incredibilmente, fa lui il primo passo. Mi mette la mano tra i capelli, poi scende ad abbracciarmi la vita. “Peccato solo che io sia in un altro albergo perché altrimenti ti avrei portata a letto” mi dice. A questo punto, mi sento presa in giro. Insomma, se uno le cose le vuole le fa. “Sono anni che lo dici ma non lo fai mai, adesso è il momento di smetterla”. Una frase sibillina. Può significare “di smetterla di dire sciocchezze” oppure “di smetterla di parlare e di fare i fatti”. Insomma, sempre che abbia capito, gli lascio la possibilità di scegliere quello che vuole. Di buttarla ancora una volta sullo scherzo oppure di rispondermi “va bene, allora vieni nella mia stanza?”. Per rinforzare il concetto in senso positivo cingo i suoi fianchi col mio braccio e reclino la testa sul suo petto. Più di così non mi è consentito dal mio orgoglio. Lui ha due scelte: quella di non fare nulla e quella di manifestare in qualche modo il gradimento. Mi accarezza le spalle, risale verso la nuca, infila ancora la sua mano tra i miei capelli. Non riesco a controllare un brivido di piacere che mi scende giù stringendo lo stomaco in una morsa e poi scende ancora, arrivando fino all’ultima delle mie cellule. Ho capito che lui si rende conto. Adesso la mossa è di nuovo sua. Purtroppo la nostra conversazione viene captata dal presidente dell’associazione che è rimasto indietro. “Mi rovini la reputazione dell'associazione? - commenta maligno -. Domani ti mando una lettera di espulsione, non puoi fare il vice presidente, ci rovini la media che io tengo alta”. Capisce subito che ha fatto una gaffe, perché noi continuiamo a camminare allacciati fino alla scala che porta all’ascensore. Dobbiamo separarci perché in fondo ai gradini ci stanno aspettando. Io sono sposata, lui pure. E’ anche una questione di serietà professionale. Se la mia collega vedesse, incomincerebbero a girare i pettegolezzi. Io ho fatto della serietà la mia bandiera, una donna non può lavorare altrimenti. I miei casini me li sono sempre aggiustati fuori dal lavoro. Arriviamo a terra e per attraversare Alexanderplatz copro di nuovo l’assessore con l’ombrello. E’ stato male e non voglio che torni ancora più malandato. In fondo ha l’età di quel papà che io non ho più e che potessi proteggerei in ogni modo. Arrivati al Park Inn, dove ci divideremo, butto lì l’idea del cocktail. Ma viene bocciata, anche da lui. Evidentemente lassù, sulla torre della televisione, ho capito male. Era solo affetto. Gratitudine per averlo aiutato. Dice che stanotte ha lavorato e che è stanco. Ok, marcia indietro nel guscio. Torniamo a casa. Lui e il suo socio con un taxi. Io, la mia collega e l’anziano latin lover con un altro. L’arzillo ometto spiega che lui sì che sa vivere. “Non sono mica come voi giovani, io - spiega -. Ho una signorina che mi aspetta in hotel”. Sì, è proprio il tipo da puttane, con tutto il rispetto per queste, ovviamente. Arrivata in hotel faccio una doccia per lavare via il freddo e la delusione. Apro il computer e avvio il lettore video con un concerto dei Pink Floyd, quello a Venezia. Era il 15 luglio 1989. Avevo 23 anni e stavo per separarmi dal mio primo marito. L’idea era quella di tornare col mio amore di sempre sperando che dopo tanti anni fosse riuscito a togliersi il giogo di sua madre che mi detestava e a causa della quale mia aveva lasciata sei anni prima. Eravamo solo dei ragazzini. A lei non piaceva che io abitassi in un’altra città. Non le mi piaceva che suo figlio mi amasse più di quanto amava lei. Lui si era trovata una ragazza più giovane che fisicamente era la mia fotocopia e alla quale diceva di fare quello che facevo io. Insomma, cercava con poco successo di allestire un clone. A questo pensavo mentre ascoltavo le note di “Shiny on a crazy diamond”. Quanta acqua è passata sotto i ponti. E che ho costruito? Non la felicità. Forse una noiosa serenità demolita dal tragico incidente che si è portato via mio padre. Alla fine il pensiero meno doloroso è quello che mi porta da Piero. Non avevo detto che doveva essere un sogno? Beh, il sogno può continuare nonostante lui. E allora sogno di sentire squillare il telefono. Sogno di sentire bussare alla porta e di vederlo entrare. Quando fosse arrivato lì, non ci sarebbe stato più niente da spiegare, da dire, da immaginare. Penso che forse non viene perché è davvero stanco. Oppure perché, non conoscendo una parola di una lingua straniera, non saprebbe come arrivare. O magari perché non sa come si chiama il mio albergo. Sulla torre della televisione dovevo pensarci. Dovevo allungargli il biglietto dell’hotel con l’indirizzo e il numero della camera. Ma sarebbe stato scoprirsi troppo. Il rischio era ancora quello di interrompere il sogno e, se non fosse venuto, trasformarlo in una debacle chiara, certa, inequivocabile e perpetua. Insomma, l’esatto contrario di quello che vado cercando col mio sogno fasullo. Ora posso addormentarmi con una nuova scusa valida per non essere, in quel momento, tra le sue braccia, per non avere, come desidererei, il peso del suo corpo sul mio. Così nella mia mente ci sono le sue grandi mani che mi accarezzano, le sue braccia forti che mi stringono, la sua bocca sottile incollata alla mia, i suoi occhi piccoli e profondi tanto vicini da non poterli mettere a fuoco. Per fortuna la stanchezza vince sull’eccitazione e chiudo gli occhi abbracciando il cuscino come un’adolescente. Il mattino non c’è altro da fare che lavarsi, vestirsi e far trascorrere i minuti che mi separano da lui. Lo vedrò solo alla fiera, immagino. Invece lui chiama l’amministratore dell’azienda che collabora con la sua e che un attimo fa è venuto a prenderci. Non ci sono taxi. E’ una scusa? Comunque sia, dobbiamo andare a recuperarlo per portarlo in Alexanderplatz, dove dovrebbe esserci qualche auto pubblica libera. Lascio alla collega il posto anteriore del passeggero, sperando che quando arriveremo al suo albergo lui salga dietro con me. Un altro pensiero da adolescente che mi tiene viva per dieci minuti. Ma quando lo raggiungiamo, la mia collega gli lascia il posto. “Tu sei alto, non ci stai dietro”. Lui tenta di rinunciare, ma lei non ammette repliche e si siede vicino a me e accanto si sistema l’anziano socio di Piero. Lui ed io non possiamo fare altri che scambiarci qualche battuta, qualche occhiata. Niente di più. Il sindaco e l’assessore decidono di aspettare loro un taxi. Probabilmente devono discutere di qualcosa. Noi proseguiamo verso la fiera in un traffico bestiale, a passo d’uomo. Penso che sarebbe stata quella strada ad avercelo avuto vicino. Certamente, visto lo spazio angusto, avrebbe messo il suo braccio attorno alle mie spalle. Io avrei potuto appoggiare di nuovo la testa su di lui. Se non altro avrei potuto inviare un segnale e avrei potuto captare meglio i suoi. Ho idea che la mia collega abbia inteso la nostra confidenza e che l’abbia fatto apposta a lasciargli il posto lontano da me. Lei è fatta così. Sì, insomma, mi patisce un po’ perché, quando ha iniziato, io ero la sua “maestra”. Poi lei ha fatto causa, se n’è andata. E’ stata assunta in un’altra azienda, più grande della mia. Qualcuno dice che sia stato per i buoni auspici del padre, io penso che sia perché è brava e che quando smusserà certi angoli del suo carattere dovrò stare veramente attenta. Arriviamo alla fiera, facciamo gli accrediti, arriviamo allo stand. Il collega di Piero attacca bottone. E’ anziano, bisogna capirlo. Lascio gli imprenditori ai loro contatti di lavoro e vado a fare un giro con la mia collega. Quando torniamo, lei assalta lo stand di fronte al nostro dove ci sono quintali di frutti di bosco. Mi siedo dietro a Piero che sta parlando con dei colleghi di Londra, ovviamente grazie a una traduttrice. Si gira: “Ciao. Sei qui? Tutto ok?”. “Sì, tutto ok” rispondo sorridendo. Sorride anche lui, per la prima volta guardandomi negli occhi direttamente. Passa qualche secondo senza che riusciamo a disintrecciare gli sguardi ed è come se ad intrecciarsi fossero mani, gambe, braccia. Poi arriva il suo collega. Inizio a pensare che lo faccia apposta. Arrivano anche gli altri e comincia la conferenza stampa. Anche io faccio una foto e lui guarda dentro il mio obbiettivo come se volesse entrarci. Dietro il mirino mi sento turbata. Io? Già proprio io. Queste schermaglie mi eccitano. Non ci sono più abituata. Resta il tempo per fare un giro tutti assieme. Approfitto del fatto che la mia collega “arpioni” l’assessore e prendo sotto braccio il sindaco. Semplicemente per spiegargli per quale motivo Piero gli chiede più tempo per terminare un lavoro. L’ho convinto. Adesso va bene, adesso posso rilassarmi. Sarebbe stato un peccato se l’azienda si fosse vista vanificare anni di sforzi. Ne va di oltre 500 posti di lavoro. La mia scusa ufficiale è questa, ma forse l’ho fatto solo per lui. Restano davvero pochi minuti per fare un giretto. Lascio il sindaco e retrocedo vicino a Piero. Lui si china per parlarmi e io sento il suo fiato sul collo. Ormai è una tortura. Scherziamo vedendo un cetriolo dalla forma allusiva. Dice che vorrebbe portarlo a suo cugino, io vado dallo standista egiziano e glielo chiedo in inglese. Ridiamo tutti assieme mentre torniamo allo stand. Lì, su un tavolino, c’è ancora un cestino di fragole. Vediamo se mi ricordo come si fa a eccitare un uomo. Prendo la fragola e ne metto metà in bocca morsicandola lentamente e guardando verso di lui mettendo negli occhi tutta la luce che riesco. Lui rimane lì a guardarmi senza dire una parola. Beh, non so se abbia fatto effetto. Non potrò scoprirlo perchè dobbiamo andare via e lo lascio lì a lavorare. Noi partiamo subito, lui solo domani. Il giorno dopo gli mando un sms facendo finta di non ricordare una cosa. Lui mi chiama. Sentire la sua voce mi fa ritornare alla memoria il brivido di quella sera. “Lo sai che non mi piace scrivere messaggi” mi dice. Mento: "Lo so, ma non volevo disturbarti". Mi ringrazia per quello che ho fatto, io rispondo che a fare queste cose mi diverto. Tutto molto imbarazzato e professionale. Faccio la stessa cosa l’indomani. E’ domenica e non voglio rischiare di chiamarlo mentre è in mezzo a tutta la sua famiglia. Anche stavolta mi chiama lui. “Dove sei?” mi chiede. “In ufficio” rispondo. Anche la domenica? Sì, anche la domenica. “Sei una donna da sposare” mi dice. Non riesco a non ridere. Evidentemente è vicino a sua moglie perché è molto formale “Ma bene! – dico io - Siamo già passati dal letto al matrimonio… che noia”. Ma la smetto subito perché non voglio metterlo in imbarazzo. Mi spiega che sta tornando dalla montagna ed è in macchina. Evidentemente non è solo, come avevo intuito. Ci scambiamo poche frasi, realmente "di lavoro". Capisco che sta sulle spine, che vuole interrompere il dialogo. “Ciao, bacio e grazie” dico. “Grazie a te” risponde lui, imbarazzatissimo. Nel non detto ci sono quasi sempre milioni di segnali. Ora non sono nemmeno più autorizzata a sognare, ora che lui è stato risucchiato dal suo essere quotidiano. Non è giusto, non è lecito. Non lo richiamerò, se non quando non ne avrò davvero necessità. Non mi richiamerà, lo so. Non è nulla, non è mai stato nulla. Ma adesso, senza il mio povero sogno fatto di nulla, mi sento davvero sola.